Bernardina Tini, detta Dina

bernardina-tini-detta-dina-icona“Per Me, Zia Dina” di Alessia Continiello”

Io zia Dina l’ho conosciuta che era già vecchia.  Era la zia anziana da andare a salutare appena arrivati in paese.  Era la vecchietta che aveva un gatto nero, che viveva da sola nella casa accanto alla mia.

Era la vecchietta che alle cinque di pomeriggio, mentre io facevo merenda sulle scale di casa, mangiava affacciata alla finestra della frutta – che non era la sua merenda  – ma la fine della sua cena.

Era la vecchietta mingherlina che non si fermava un attimo, che careggiava fascine di legna, guernava i conigli e piantava fiori. Era la perpetua della chiesa. La vedevi prima della messa andare svelta per la piccola navata  a verificare che tutto fosse in ordine. Che le candele ardessero piano, che il prete trovasse i suoi ornamenti e che i suoi fiori fossero ben sistemati.

Era la vecchietta che aveva sempre un foulard in testa. Quando di tanto in tanto lo toglieva – giusto per l’attimo necessario a sistemarlo –  si scopriva che li sotto erano raccolti dei lunghi capelli argento, forse l’ultima vanità rimastale.

Zia Dina non badava alle stagioni, e che fosse dicembre o agosto, lei aveva sempre due maglioncini, un cardigan, una gonna pesante e le calze 120 denari color carne.

Le sere d’estate Dina era solita andare, come tutti, al casone per qualche chiacchiera prima di andare a letto, ma quando le capitava di ospitare le sue due sorelle con i rispettivi nipoti, allora, dopo cena scendeva da casa e dalla cantina tirava fuori tre vecchie sdraie e tre coperte. Le tre donne sedevano sulle sdraie con le gambe coperte e – tra una chiacchiera e l’altra – guardavano i loro nipoti mischiati con noi altri monelli giocare.

Con noi monelli Dina non è che sia stata sempre benevola. Sfortuna volle che l’unica parte non in salita del paese fosse proprio sotto le sue finestre. Un pezzo di cemento piano che ben si adattava per lunghissime partite di pallavolo, a suo dire pericolosissime per le sue finestre (ma in verità nessuna finestra fu mai rotta).  La pianta di noci li vicino ci forniva invece le munizioni per incredibili guerre e altrettanto incredibili lividi. E poi palla avvelenata, acchiapparella, nascondino e qualsiasi altra cosa venisse in mente alla banda di monelli che tutti noi siam stati.

Ecco, questo a Dina non faceva molto piacere. Se la sua cena era all’ora della nostra merenda, calcolo velocemente che la sua sveglia suonasse forse anche prima dell’alba, e quindi pare ora chiaro perchè l’oretta della pennichella pomeridiana le fosse particolarmente cara.

Peccato che noi monelli non fossimo dello stesso avviso e scorazzassimo incuranti del riposo di Dina sotto le sue finestre. Si narrano scene drammatiche, con la povera vecchia che tirava secchiate d’acqua nella speranza di disperderci ottenendo però l’esatto contrario:  tornavamo a far cagnara più forti ed eccitati di prima.

Come tutte le storie però anche questa simpatica bagarre finì. Finì perché i monelli crebbero ma soprattutto finì per via del terremoto.

Il terremoto infatti lesionò tra le altre anche casa di Dina che dopo un periodo in tenda venne trasferita nelle casette di legno vicino la chiesa. Lì non aveva più legna da careggiare, conigli da guernare, fiori da coltivare e monelli con cui lottare. Le restavano però i suoi occhi azzurri, piccoli ma vispissimi, che di anno in anno impiegavano più tempo a riconoscerti e il suo profumo. Profumo di chi ha passato tanto tempo, forse una vita, davanti al camino.

 

 

  







6 Commenti su Bernardina Tini, detta Dina

  1. Fabio Di Matteo // 17 febbraio 2016 a 23:14 // Rispondi

    Ho ricordi molto fumosi e diradati, soprattutto del suo viso, che non riesco a trovare più, né in foto storiche né nella mia memoria. Ricordo però lo stesso carattere un po’ scontroso ma mai spaventoso per noi ragazzi. Grazie per questa tua memoria delicata e precisa. Ricordo anche io la sua finestra sopra al “campo da pallavolo” :)

  2. Grazie mille con tutto il cuore per questa memória di mia Zia… Mi sono commosso. “Gobbolino” il suo gatto nero in realta’ era il mio, che una volta assaporata lá liberta’ e i piccoli roditori di San Felice non volle piu’ tornate a casa nella caótica Roma. Ho molte foto di Zia Diná… E con Fábio molte volte abbiamo giocati campionati interi di volley… Senza menzionare i vari skate e carretti a sfrecciare in quel pezzettino di asfalto. Grazie mille per avermi fatto trovare questo piccolo tempo e riassaporare quell’infanzia meravigliosa passata al paese. Tra pane e ciauscolo e guerre stellari con bastoni appuntiti. Credo sia doveroso solo menzionare gli altri due Santi che sopportavano i nostri schiamazzi estivi che erano Zia Checchina ed Ernesto. Grazie.

    • Ciao Alessandro, grazie a te! Pensa, non sapevo che davvero quel gatto si chiamasse “Gobbolino”, io lo chiamavo così perché era il nome del protagonista delle mie favole preferite. Spero tu abbia notato il riferimento a tua nonna Irene e te… e grazie per aver citato Ernesto, mio nonno. E’ bello ritrovarsi a ricordare insieme, grazie a Fabio che ha creato questo spazio.
      Un abbraccio,
      Alessia

  3. Fabio Di Matteo // 18 febbraio 2016 a 8:42 // Rispondi

    Zia Checchina (alias Francesca Brunamonti) è qui:
    http://www.sanfelicesportfantasystation.com/francesca-brunamonti/

    Per Ernesto, arriverà a breve anche una pagina a lui dedicata.

  4. Grazie Alessia per questa bellissima testimonianza, mi hai fatto rivivere un pezzo di storia ormai archiviata in cassetti remoti come se fosse successa ieri è rallegrarmi per avere dei così bei ricordi d’infanzia

  5. bernardina b. // 31 dicembre 2018 a 15:52 // Rispondi

    Abbiamo un nome ‘ particolare’ e per molte persone siamo particolari davvero. Carattere scontroso ed ombroso lo dicono anche a me ma perché cerchiamo la profondità.

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